Novembre 1943. Le sette di sera. Ponte di via Ancinale, proseguimento di via Pola, oltre la variante. Periferia di Sulmona. Al buio, un centinaio di persone sta componendo una lunga fila. Lingue straniere e parole dialettali si rincorrono dall’uno all’altro. Davanti due o tre sulmonesi. Le guide del percorso. Gli unici che sanno quanto sarà difficile, temerario l’attraversamento della Maiella. E da lì al Sud.
Maiella, montagna madre degli abruzzesi, ma ora nelle mani dei tedeschi.
La carovana si incammina. Serata novembrina, in compagnia d’un clima piuttosto mite. Gli stranieri sono la maggioranza. In gran parte, prigionieri fuggiti dal campo di Fonte d’Amore, dopo la dichiarazione dell’armistizio. Sono stati accolti e ricoverati nelle famiglie di Sulmona, dove hanno trovato cibo, rifugio, simpatia. Non se l’aspettavano, sapendo che Mussolini aveva affermato “Dio stramaledica gli inglesi”, frase spesso ripetuta alla radio. Ma era falsa anche per il dittatore, perché aveva affermato di non credere in Dio. A Sulmona, erano pochi quelli che possedevano una radio. Solo qualche famiglia benestante. La gente ascoltava i discorsi di Mussolini dalla radio in piazza, a tutto volume.
Gli inglesi fuggiti dal Campo 78 si erano subito ricreduti sull’adesione degli italiani al fascismo. Non solo, ma avevano capito che le parole di Mussolini erano per gli italiani parole vuote. Soprattutto ora che Mussolini è politicamente finito, caduto nelle mani di Hitler, dopo la fuga dal Gran Sasso. Aveva creduto, solo lui, al progetto delirante: «Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari a calci in culo. Così farò io».
Forse, anzi certamente, un politico che se n’intendeva della guerra, il primo ministro inglese, Winston Churchill, conosceva gli italiani meglio di Mussolini: «Gli italiani sanno eccellere in moltissimi campi… Eppure si sono ostinati a fare la sola cosa nella quale non sono mai riusciti molto bene, vale a dire combattere».
Ed era vero, perché molti italiani si erano iscritti al partito nazionale fascista per pacifica sopravvivenza (PNF= Per Necessità Familiari), piuttosto che per adesione volontaria o per condivisione di ideali.
Al Borgo Pacentrano di Sulmona, dove erano stati ospitati e dove ne rimanevano ancora tanti in attesa di fuggire attraversando la Maiella o di essere accompagnati a Roma, avevano trovato un ambiente familiare. Un borgo-famiglia, dove si passava da una casa all’altra, assistiti come parenti.
Con l’organizzazione accurata della traversata si vuole ora tentare un primo esperimento di fuga, affrontando con le guide il superamento o l’accerchiamento della Maiella. Gli alleati sono ancora lontani, mentre i tedeschi stanno occupando la zona tra l’Abruzzo e il Molise. Queste, le poche informazioni. Ma, chiedendolo alla storia, Kesselring ha già rassicurato Hitler di riuscire a bloccare l’avanzata alleata. Tra l’Abruzzo, il Lazio e il Molise. La linea Gustav.
Il cammino prosegue con ritmo cadenzato. L’uno dietro l’altro, in fila indiana. In alto si vedono le poche luci fievoli di Pacentro. Anche lì sono ospitati centinaia di prigionieri fuggiaschi. Aspettano l’arrivo degli alleati. Ma il ritardo aumenta il pericolo di cadere nei rastrellamenti tedeschi. Sono avvenuti anche a Sulmona, al borgo pacentrano. Giovani e anziani italiani rastrellati per essere condotti a Pescocostanzo: a scavare trincee. Anche un prigioniero del Campo 78 vi è finito e ne è miracolosamente fuggito parlando in tedesco con due austriaci. È John Furman, che lo racconterà nel suo libro autobiografico “Be not fearful, Non aver paura”.
La carovana supera il bivio per Pacentro e si dirige verso Campo di Giove, costeggiando Cansano. Comincia la salita, anche se piuttosto agevole. Solo in alcuni passaggi ci vuole fiato e volontà di proseguire. Fortunatamente il sentiero attraversa luoghi pianeggianti, adatti a riprendere forza. Dopo alcune ore dalla partenza si vedono in lontananza le luci di Campo di Giove. Le guide fermano la carovana. Se ne conoscono ormai i nomi: Alberto Pietrorazio, Domenico Silvestri, Mario Di Cesare. A loro la responsabilità morale dell’esito della traversata. Sanno che a Campo di Giove ci sono i tedeschi. Che il paese è stato evacuato su loro ordine. Che al Guado di Coccia, un mese fa, è avvenuto uno scontro armato, lasciando morto in terra il giovane tenente italiano, Ettore De Corti.
Non c’è bisogno che raccomandino massima attenzione e, con l’aiuto, di alcuni ex-prigionieri interpreti, danno le informazioni e stabiliscono di attraversare il paese, costeggiandolo al largo. Sono le dieci di sera. Qualcuno ha fatto uno spuntino, camminando. Un panino. Una salsiccia. Un po’ di formaggio.
Si va verso il monte Porrara. Comincia la vera salita. L’obiettivo è il Guado di Coccia. Proprio il luogo dove è avvenuta la sparatoria e la morte di De Corti. Si sale lentamente, evitando ogni rumore. I tedeschi stanno in allerta. Sanno che Campo di Giove è un paese di riferimento per italiani e alleati, perché passaggio tra il Nord e il Sud. Per questo, al Guado di Coccia, avevano trovato decine di giovani italiani in procinto di recarsi al Sud per unirsi agli alleati.
Kesselring sta preparando la grande diga di difesa per bloccare l’avanzata alleata. Il fiume Sangro sembra messo lì come linea di separazione e di confine. Si va creando la terra bruciata. La terra di nessuno. Un paesino, Pietransieri, frazione di Roccaraso, annientato. Terra e gente bruciata: centoventotto trucidati. Novembre 1943, novembre di morti, novembre da non poter mai dimenticare. La fila dei fuggiaschi giunge al Guado di Coccia e scende verso Palena. Al buio tra gli alberi che sovrastano il paese. Lontani dalle case, proiettati verso Sud.
Le guide decidono di sciogliere la carovana, in piccoli gruppi, diretti verso il Molise. Nei giorni precedenti, piccoli gruppi di prigionieri in fuga dal Campo 78 sono giunti a Campobasso, incontrando gli alleati. Lo racconterà nel suo libro sull’Abruzzo, “The Way Out, Libertà sulla Maiella”, lo scrittore sudafricano Uys Krige.
La traversata non è finita, ma il passaggio della Maiella è avvenuto, senza incidenti. Tutti salvi. È giorno ormai e le strade controllate dai tedeschi sono facilmente evitabili.
Dopo la prima, vengono organizzate altre traversate. Più difficili, più rischiose nel superamento della linea Gustav. Ma, nonostante la creazione di quel muro impenetrabile e insuperabile, altri prigionieri fuggiaschi, antifascisti, giovani italiani che scelgono di stare dalla parte degli alleati, affrontano la traversata relativamente più corta, ma più controllata e più battuta: Sulmona-Casoli.
Dicembre 1943. L’altra via di fuga: Sulmona-Roma. È una ragazza-madre, una bravissima sarta, Iride Imperoli, la staffetta che accompagna in treno, da Sulmona a Roma, piccoli gruppi di ex prigionieri, ebrei e ricercati antifascisti. Nasce così il rapporto con Mons. Hugh Joseph O’Flaherty, che dal Vaticano dirige la cosiddetta Rome Organization per l’aiuto alle migliaia di ex prigionieri nascosti a Roma. Sarà definito “la primula rossa del Vaticano”, ma troverà la collaborazione di vari ex prigionieri del Campo 78 di Sulmona. Tra loro, il più importante, Sam Derry e con lui William Simpson e John Furman. Racconteranno le imprese di Roma occupata dai tedeschi nelle loro autobiografie: “The Rome Escape Line, Linea di fuga 1943-1944 Sulmona-Roma-Città del Vaticano” di Sam Derry, “A Vatican lifeline’44, La guerra in casa, la resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano” di William Simpson e “Be Not Fearful, Non aver paura” di John Furman.
Tra il mese di dicembre 1943 e il gennaio 1944, Iride viene catturata a Roma, su delazione di una spia sulmonese. Alla cattura di Iride, condotta prima al carcere di via Tasso e poi a quello di Bussi e di Civitaquana, seguono le incursioni della Gestapo in vari appartamenti di Roma, dove sono rifugiati i prigionieri. A Civitaquana, in provincia di Pescara, la casa di un medico è adibita a carcere per decine di prigionieri, civili e politici antifascisti. Iride vi rimane alcuni mesi. Poi trasferita a L’Aquila e dopo la liberazione a Sulmona. A Civitaquana, con un tribunale-farsa, vengono condannati a morte quattro civili italiani. Di notte riescono fortunosamente a fuggire e mai più ricatturati. Anche Iride ha raccontato, in varie interviste, le sue avventure e disgrazie nell’aiuto ai prigionieri. Ne ha anche scritto, con l’aiuto del figlio Salvatore Colaprete, un opuscolo inedito, riportato in parte nel libro “Terra di libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”, a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta.
Fuga dal treno: Autunno-Inverno 1943-1944
Dal Campo 78, dopo l’8 settembre, i prigionieri alleati vengono incolonnati e accompagnati alla stazione di Sulmona per essere immessi nei vagoni dei treni e deportati in Germania, ai campi di lavoro. Le colonne dei prigionieri sono generalmente controllate da guardie tedesche, che non risparmiano pallottole contro coloro che cercano di allontanarsi dallo schieramento.
Sui vagoni, simili a quelli diretti ad Auschwitz, i prigionieri sono addossati gli uni sugli altri, senza servizi igienici, scarse aperture per l’aria. Un ammasso di gente destinata a morire subito o all’arrivo in Germania, dopo giorni di tragitto in condizioni invivibili. Ma anche in queste condizioni, si pensa alla fuga.
Ne sono testimonianze quelle di Jack Goody, Sam Derry, John Verney e altri.
Verney, nel bellissimo libro “A Dinner of Herbs, Un pranzo di erbe” racconta: « La lunga fila di prigionieri, sotto la scorta delle sentinelle, si dirigeva a passo strascicato verso un treno di carri bestiame. A sera inoltrata, una fila di lampade, parzialmente oscurate per la paura dei bombardamenti, gettava ad intervalli una luce spettrale. Il mal di testa divenne così acuto che, ogni tanto, mi rannicchiavo sullo zaino. Il mio malessere era talmente evidente che un soldato tedesco si avvicinò chiedendomi se avessi bisogno di un dottore. Immaginando fresche lenzuola d’ospedale, fui tentato di dire di sì, ma Amos lo assicurò che stavo bene. […] Si udì uno sparo, all'inizio della fila. Il lento passo di marcia e il sussurrare di millecinquecento voci crearono un’atmosfera di silenzio spettrale, che durò qualche secondo. Una o due grida. E di nuovo silenzio. Poi la conversazione riprese con forzata indifferenza. "Uno jugoslavo ha cercato di fuggire. La sentinella gli ha sparato e l’ha ucciso". La notizia, mormorata lungo la fila, provocò un altro brivido.
"L'ho visto quando è successo", disse più tardi qualcuno. "Un pezzo d’uomo con i capelli neri e con una sciarpa bianca di cotone intorno al collo". Poco dopo, passammo vicino a quella figura indistinguibile. Un paio di stivali usciva da sotto un sacco. Era l’avvertimento per chi stava pensando di attuare un simile piano di fuga.[…] Intorno alle 23, Amos, Mark ed io eravamo stretti su un carro bestiame insieme ad altre trenta persone. Il pavimento puzzava di pecora, o forse di capra. Fu chiusa la porta scorrevole e bloccata dall'esterno. Abituatomi all'oscurità, scorsi un barlume di cielo, attraverso l'apertura per l’aerazione sotto il tetto, dalla parte opposta. Iniziò il viaggio verso la Germania. Il treno cominciò a muoversi un po’ avanti e un po’ indietro. Mezzo addormentato mi chiesi se stavamo andando verso Roma, ma non avevo nessuna idea della distanza e del tempo. Poi ci muovemmo in avanti e caddi addormentato come un sasso. Mi risvegliai che il treno era fermo. Mal di testa sparito, come mi succede spesso. Mi sentivo bene e scoppiavo di salute. Amos mi stava scuotendo la spalla, dicendomi di dare un’occhiata. Ci mettemmo in piedi con cautela e cercammo di arrivare all'apertura per l’aerazione, passando sui corpi. Era abbastanza alto per poter dare un'occhiata fuori. Disse che eravamo vicini ad una ripida altura, che una sentinella tedesca andava avanti e indietro lungo la linea e che la notte era abbastanza scura. Il treno poteva ripartire da un momento all’altro. Non c'era tempo per raccogliere la nostra roba o le nostre provviste. Mi aiutò a sollevarmi e rimasi appeso mezzo dentro e mezzo fuori dall'apertura, cercando di sentire i passi della sentinella. Stava allontanandosi. Riuscii a scendere lungo la ferrovia e mi arrampicai sull'altura, gettandomi sul terreno coltivato a fagioli. Lo ricordo bene. Qualche istante dopo, Amos giacque affannato al mio fianco. Dopo un lunghissimo minuto il treno ripartì. Non appena si allontanò, qualcuno si gettò goffamente tra i fagioli vicino a noi. Nascondemmo facce e corpi a terra, nel timore di essere visti da qualche contadino italiano o da un soldato tedesco. Ci stavano cercando, ma non quelli che avevamo immaginato. "Eccovi", disse l'uomo, raggiungendoci.
"Cristo, Mark, chi ti ha chiesto di venire?" dissi sottovoce».
John Verney e gli altri due arrivano a Introdacqua, poi alle casette di Pettorano, dove troveranno accoglienza, ospitalità e aiuto dalle famiglie Amatangelo e Crugnale.
Ecco come Sam Derry (“The Rome Escape Line, Linea di fuga 1943-1944), che poi arriverà in Vaticano e sarà il più importante collaboratore di Mons. O’ Flaherty, racconta il suo salto dal treno nei pressi di Tivoli: « “È una follia!”, pensai, quando in un assolato mattino italiano la porta del vagone si aprì e mi lanciai dal treno in corsa che trasportava i prigionieri di guerra. Tremo ancora, quando ripenso a come rotolai e rimbalzai su una coltre di sassi, terribilmente vicino all’assordante rombo delle ruote del treno. All’improvviso rimasi senza fiato, colpito da un dolore lancinante. Toccai il suolo piegato goffamente sulle ginocchia, mi sporsi in avanti e, scivolando, mi ritrovai sdraiato a terra dopo un’eternità di secondi, pieno di graffi, braccia e gambe aperte, come una camera d’aria sgonfia. Ero lì, inerme, aspettando solo di essere colpito. Incredibilmente, inspiegabilmente, gli spari non arrivarono».
Jack Goody, considerato il più grande antropologo britannico, catturato in guerra dall’Afrika Korps di Rommel, arriva al Campo 21 di Chieti e poi al Campo 78 di Sulmona. Salta dal treno che lo sta portando in Germania e si trova nei pressi di Anversa degli Abruzzi e poi, insieme al gruppetto di amici si dirige verso Casale di Cocullo, nascondendosi in una grotta, sfamati dagli abitanti (“Oltre i muri, la mia prigionia in Italia”). La sua testimonianza, al ritorno in Abruzzo: «Non ho passato molto tempo in Abruzzo, ma il tempo che vi ho passato è stato molto intenso e mi ha segnato per sempre. […] In realtà furono molto gentili, ci dettero qualcosa da mangiare e ci mostrarono una grotta dove poterci stendere e nasconderci meglio. Da lì in poi, si presero buona cura di noi».
Gennaio 1944. Alle quattro di pomeriggio del 13 gennaio, si mette in marcia un gruppo di cento uomini. La guida è uno solo, Domenico Silvestri. Il resoconto della traversata è sulle pagine del libro autobiografico di John Esmond Fox, “Spaghetti and Barbed Wire, Spaghetti e filo spinato”. Fox con altri due compagni di fuga non solo conosce Domenico, ma viene ospitato nella sua abitazione, a Cantone, una frazione tra Sulmona e Introdacqua. Poco più di tre mesi, nascosti in casa Silvestri. Fox apparteneva al IV reggimento Royal Horse Artillery, catturato in Africa dai tedeschi. Trasportato a Napoli con una nave-ospedale, rimane per qualche mese ricoverato nell'ospedale della città. Successivamente viene trasferito a Sulmona e rinchiuso nel campo di concentramento. I suoi vari tentativi di fuga falliscono miseramente. Assiste al bombardamento di Sulmona e viene a sapere dell'invasione alleata in Sicilia. Fox e altri due amici, George e Tony, fuggono sul Morrone, ma vengono poco dopo ripresi e rinchiusi di nuovo nel campo. Durante questo secondo periodo di prigionia, Fox e i suoi compagni assistono al cannoneggiamento e alla distruzione dell'Eremo del Morrone. Temendo di essere trasportati in Germania, in tre, l'autore con i compagni Barrel e Frank, riescono a fuggire. Ospitati da varie famiglie in luoghi sempre diversi, vengono infine accolti ed ospitati dalla famiglia di Domenico Silvestri. Ribattezzati con i nomi italiani di Paolo Pastore, Francesco Re e Giacomo Volpe, conoscono meglio anche i vicini di casa, amici della famiglia Silvestri: Grandina, Angela, Peppino, ecc.
Nel Post-Scriptum al libro, Fox scrive: “Del gruppo di cento uomini che si erano messi in marcia, alle quattro di pomeriggio del 13 gennaio, arrivarono a Casoli alle 11 del mattino del 15 gennaio, dopo un cammino di 36 ore, 47 uomini e 22 di essi furono ricoverati in ospedale per congelamento o per spossatezza. Non sono mai stato in grado di sapere che cosa accadde agli altri”.
L'idea fondamentale, che permea ogni pagina e diventa messaggio dell'intero lavoro di Fox, è che il mondo sarebbe un paradiso se la solidarietà, l'amicizia, l'ospitalità e la comprensione, trovate e provate in quegli anni, fossero sempre presenti nel mondo: “What a miracle it would be if such camaraderie, esprit de corps, call it what you will, prevailed in everyday life. The world would then indeed be a step nearer the ultimate Utopia of our cherished dreams (Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita quotidiana. Il mondo allora davvero sarebbe un passo più vicino all'ultima Utopia dei nostri sogni più cari)".
Domenico è un cacciatore che conosce molto bene le montagne della zona. In collegamento con gli altri, in particolare con i fratelli Balassone, organizza numerose traversate da Sulmona a Casoli, dove dal dicembre 1943 si trova il comando alleato. Incontra il giovane Carlo Azeglio Ciampi e Guido Calogero in casa del parroco di Bugnara, don Ciccio De Pamphilis. Secondo il racconto di Domenico, Calogero gli offre del denaro per la traversata. Ma lui risponde: “Se vi porterò oltre le linee lo farò senza compenso: non si fa mercato della vita umana”. L’ultima spedizione, nel marzo del 1944, guidata da Domenico, viene intercettata da una pattuglia tedesca e tutti i componenti arrestati. Condotto con molti altri nel carcere di Civitaquana, vi rimane per qualche mese. Mentre sta per essere deportato in Germania si dà alla fuga, come lui stesso racconta: “Eravamo nei pressi di Pedaso, quando di notte mi si presentò l’opportunità di fuggire. […] Eravamo guardati da un solo tedesco che alla sera si sbronzava regolarmente. Fu così che mentre il guardiano si immerse in un sonno di piombo per via del vino ingerito, io presi la fuga e dopo pochi giorni ero a Sulmona ormai liberata.”
24 marzo 1944. La traversata è guidata da Alberto Pietrorazio, Mario Di Cesare e Gino Ranalli. Vi partecipano Carlo Azeglio Ciampi con gli amici Oscar e Carlo Autiero, sulmonesi, insieme ad un gruppo di molte decine di persone. Ciampi si trova a Scanno, e venendo di tanto in tanto a Sulmona, presso la famiglia Cantelmi, conosce molte persone impegnate nella “resistenza umanitaria”, che organizzano le traversate. Tra queste, Roberto Cicerone. Al momento della dichiarazione dell’armistizio, Ciampi si trova a Livorno, città dove è nato il 9 dicembre 1920, in temporanea licenza dall’Albania. Da Livorno si reca a Roma in casa dello zio Enrico Alfredo Masino, funzionario del Ministero dell’Agricoltura, coniugato con Luisa Sforza, per avere notizie sulla sua destinazione. Ma, nel caos derivato dall’armistizio e dopo gli scontri a Porta San Paolo, sollecitato dalla cugina Paola Masino, scrittrice e amica della famiglia Quaglione, che abita nella stessa palazzina in viale Liegi 6, si unisce a Pasqualino Quaglione, per dirigersi alla volta di Scanno.
Partono da Roma, con una tradotta che va a Pescara. Si accordano con il macchinista, in modo che il treno rallenti alla stazione di Anversa-Villalago-Scanno ed avere quindi la possibilità di scendere dal treno in corsa, senza serie conseguenze. Cosa che avviene felicemente. Ma, alla stazione di Anversa degli Abruzzi, inaspettatamente, Ciampi trova un amico di Livorno, che con la madre sta cercando di raggiungere Napoli, seguendo la linea ferroviaria Sulmona-Carpinone-Napoli. L’amico è l’ebreo Beniamino Sadun, col quale, rifugiandosi in soffitta di qualche casa amica o nei casolari di montagna, trascorre i lunghi mesi invernali del 1943-’44. A Scanno, Carlo Azeglio ritrova il suo professore di filosofia alla Normale di Pisa, Guido Calogero. Insieme, maestro e discepolo, si aiutano e collaborano alla stesura dei documenti sul liberalsocialismo.
Della traversata, Ciampi lascia un diario, scritto appena giunto a Bari. Una traversata che da Sulmona raggiunge Casoli, senza incidenti con i tedeschi, perché i marciatori cercano di evitare il paese di Palena e di scendere a Taranta Peligna, dove incontrano le avanguardie dell’Ottava Armata.
«24 marzo, venerdì. Il tempo è bello: quindi si dovrebbe finalmente partire. All’una, mentre finiamo di mangiare, (ero ospite da due giorni in casa Cantelmi) delle formazioni aeree inglesi bombardano Sulmona; subito dopo usciamo: hanno mirato alla Stazione ed al ponte sulla strada di Popoli, senza colpirlo; fortunatamente nessuna vittima. Venuto a sapere che la nostra partenza è anticipata, affretto gli ultimi preparativi ed alle 16,30 raggiungo le casette. Alle 17,15 cominciamo a muoverci: 21 prigionieri e civili pochi dapprima, ma subito un’altra quindicina si aggiunge per i campi. […] Arriviamo ormai a notte sotto a Pacentro e là ci riuniamo con l’altro gruppo, condotto da Mario e Gino. Verso le venti cominciamo la marcia in silenzio e in fila indiana; durante una breve sosta mi sento chiamare e riconosco Carlo ed Oscar Autiero, che hanno deciso di partire proprio poche ore prima. La marcia prosegue assai bene: cielo sereno, poco freddo; saremmo una sessantina, di cui venticinque prigionieri; fisicamente mi sento a posto. Verso gli ottocento metri comincia la neve; poco dopo Alberto ci invita ad essere particolarmente silenziosi perché siamo vicini a Campo di Giove… Continuando la salita diventa sempre più aspra, la neve è buona; regge assai bene e si sprofonda poco: però qualcuno comincia a scoppiare, cerco di aiutare, insieme ad un altro, un prigioniero che non ce la fa più. Avvertiamo Alberto, ma questo dice che non può rallentare la marcia inquantoché si deve giungere al Guado di Coccia prima dell’alba, pena la sicurezza della spedizione: così quello deve essere abbandonato… Alle quattro, ormai del 25 marzo, siamo sul Guado, purtroppo il tempo è improvvisamente mutato, il cielo è nuvoloso e si alza un forte vento: ci fermiamo un buon quarto d’ora per attendere i più lenti; mangio un po’ di zucchero e biscotti con neve. Proseguiamo, ma poco dopo siamo costretti a fermarci, è cominciata una vera e propria tormenta e le guide non osano andare avanti così al buio: attendiamo per più di mezz’ora l’alba sotto un vento gelido e con nevischio, battendo i piedi per non farli congelare; io li sento zuppi: nella salita ho perso il basco e lo sostituisco con una maglia che mi fa da passamontagna…
Al primo vallone Alberto comincia inspiegabilmente a scendere: dopo un po’ si ferma imbarazzato; lo raggiungo con Carlo Autiero: ha perso completamente la bussola e io con una vera bussola alla mano gli mostro che seguitando a scendere andiamo senz’altro a finire in mano ai tedeschi. Dobbiamo quindi risalire e dirigerci verso oriente: ora è Mario che ci guida. La tormenta diventa sempre più forte ed ormai non ci abbandonerà fino a destinazione. Oscar Autiero comincia a dire che non ce la fa più: sono le sette circa. La sua crisi si accentua: il fratello ed io siamo costretti a tirarlo a turno, mentre ci distacchiamo dal gruppo. Sono preoccupato che il distacco non si accentui troppo, perché la traccia che il gruppo lascia, poco marcata per il fondo gelato, può venire presto ricoperta dalla neve che fiocca. Fortunatamente il gruppo fa dei numerosi alt: molti sono infatti quelli che non ce la fanno più ed alcuni di essi debbono rimanere abbandonati: poveretti! Rimanere nella neve in quelle condizioni vuol dire la vita! Ad un tratto Oscar si butta a terra dicendo di non farcela più, che si sente rompere il cuore e conclude: “Lasciatemi, andate pure avanti, io ho tanto sonno, dormo un po’ e poi vi raggiungo!”. Ha la faccia paonazza. Io e Carlo ci guardiamo scoraggiati, lo riprendiamo ad alta voce, lo scuotiamo: io gli verso dello zucchero in bocca e gli faccio mangiare un po’ di marmellata. Riusciamo a farlo alzare e continuiamo a trascinarlo fermandoci si può dire ogni cento metri e dicendogli che ormai si tratta solo di mezz’ora. Così fin oltre le dieci, storditi ed accecati dal vento e dalla neve, riunendoci ogni tanto al gruppo e poi nuovamente perdendo contatto. Fortunatamente pian piano Oscar supera la crisi, lui dice in virtù dello zucchero e della marmellata e cammina quasi senza aiuto.
Al quinto vallone iniziamo la discesa: le guide stesse non sanno neppure loro dove precisamente si vada a finire! Io dalla direzione tenuta e dalla strada fatta penso che al peggio dovremmo essere nel vallone di Taranta e quindi uscire nella terra di nessuno. Arrivati quasi a valle, attraverso una neve che in parte fresca e in parte non gelata regge poco, la tormenta cessa e vediamo sotto noi un paesetto quasi completamente distrutto. A vederci siamo assai mal ridotti: i piedi li sento gelati, specialmente il destro, dato che si è scucito il tallone della scarpa; le mani pure, perché i guanti di lana bagnati dalla neve sono diventati rigidi, ugualmente buona parte della maglia che ho in testa: alle sopracciglia ed ai capelli sulla fronte si è attaccata la neve che poi si è ghiacciata: non posso toglierla, altrimenti strapperei tutto. Che il paese sia Taranta viene riconosciuto solo mentre lo raggiungiamo: non si vede anima viva. Ci fermiamo alcuni minuti sulla strada rotabile, poi entriamo nel paese e ci viene incontro tra la nostra gioia un tenente indiano. Ce l’abbiamo fatta.» (cfr. “Terra di libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale” a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta).
Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta
Pubblicato per la prima volta in Rivista Abruzzese, LXXII, n.1/2019
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