Il campo di concentramento di Lanciano, raccontato nel suo primo periodo di funzionamento da Maria Eisenstein, si presta in maniera unica per sviluppare un progetto aperto di ricerca storico- sociale, dando volto e nome a persone che per il regime concentrazionario fascista erano soltanto numeri e che viceversa, combinando racconto e documento storico, possono essere restituite alla vita reale, consentendoci di conoscerne le angosce, i timori, le speranze. Non solo fatti, dunque, ma qui si ha modo di rappresentare con dovizia di riferimenti storici quell'urlo muto dell'anima, che il racconto mostra nella descrizione della routine della vita in un campo di concentramento fascista.
Il “disvelamento storico” del libro di Maria Eisenstein, L'internata numero 6, ha preso le mosse dalla Postfazione scritta da Carlo Spartaco Capogreco dell'edizione del 1994, edita da Tancrida Editore dopo che lo stesso libro aveva visto la luce per la prima volta nell'ottobre 1944, quando veniva pubblicato a Roma dall'editore De Luigi. A lui, infatti, si deve l'identificazione di Maria Eisenstein con la Maria Ludwika Moldauer, ebrea polacca, internata numero 6 nel campo di concentramento di Lanciano (CH), che aveva sede presso Villa Sorge, nella periferia cittadina. Qui l'autrice fu condotta il 4 luglio 1940 per restarvi reclusa fino al 13 dicembre 1940, dopo che era stata arrestata a Catania il 17 giugno del 1940. Già da una prima lettura si capisce come il libro costituisse un'opera di eccezionale valore perché, unico in Italia, è in grado di restituirci dal “vivo”, in forma quasi diaristica, la vita di un campo di concentramento fascista operante durante gli anni della seconda guerra mondiale.
L'autrice, infatti, ci racconta, con rara intensità emotiva, le vicende del campo di concentramento femminile di Lanciano (CH), mettendo insieme fatti e personaggi, pensieri, angosce e tormenti delle donne ivi recluse. Ne erano 75, in condizioni igieniche particolarmente precarie, esposte al freddo e alle piccole angherie del direttore del campo, il Commissario di P.S. Arduino Pistone e della sua assistente Maria Anna Fusco in Marfisi.
Se sugli aspetti letterari del libro ho avuto modo di occuparmi per esteso nel mio I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell'Italia fascista (Roma 2006, Edizioni di Storia e Letteratura), mettendo in luce la grande destrezza dell'autrice nell'utilizzare il tema della maschera, dello specchio, della terapia della scrittura, ritengo sia giunto il momento di dover puntualizzare in modo sistematico il valore de L'internata numero 6 come documento storico privilegiato per sviluppare una storia sociale del campo.
I riferimenti alla storia traspaiono già nella citazione di alcuni fatti di cronaca di rilievo. Nel libro, ad esempio, si parla delle reazioni delle internate di fronte ad alcuni avvenimenti storici accaduti nel periodo di permanenza di Maria Eisenstein nel campo di concentramento di Lanciano, come la caduta di Berbera, già capitale della Somalia britannica, del 19/08/1940, oppure la morte del capo della polizia Arturo Bocchini del 20/11/1940. Altrettanti riscontri storici si trovano in fatti più legati all'esperienza concreta della vita del campo, come il tentativo di suicidio di Mireille (30/07/1940), il ricovero nell'ospedale di Lanciano della Moldauer del 15/08/1940, nella stessa stanza in cui era stato ricoverato poco prima, il 5/08/1940, lo scrittore antifascista Aldo Oberdorfer. Corrisponde al vero, comprovato da numerosi documenti, anche l'episodio legato alla denuncia dell'internata Abramova Natalina (nel libro Natascia) per fatti accaduti il 1° dicembre 1940. Qui il racconto di Maria Eisenstein trova conferma pressoché letterale nei documenti d'archivio relativi all'inchiesta che ne seguì e al ruolo di tre internate, Hela, Ilona e Mutti, che furono chiamate a testimoniare. In tal caso, semmai, si può dire che il libro ci restituisce qualcosa di più vero e autentico rispetto ai documenti a noi pervenuti, come la paura di ritorsioni da parte delle internate, le strategie adottate per concordare una linea comune, gli abiti da indossare per sembrare più convincenti. Insomma qui possiamo notare che non solo i fatti, ma anche gli attori sociali sono presentati nel libro nei loro pensieri e nelle motivazioni che sottostanno al loro agire.
Siamo all'epilogo del racconto, che coincide con l'uscita dal campo della Moldauer, che, il 13 dicembre 1940, veniva assegnata al regime di “internamento libero” a Guardiagrele (CH), in una sorta di domicilio coatto in cui, con minori privazioni della libertà personale, si poteva anche vivere in famiglia. Dopo di ciò, come ho già avuto modo di rilevare, il libro perde la sua caratteristica di documento storico per assumere un ruolo più marcatamente letterario, con l'intento di creare scientemente intorno al lettore un alone di mistero e di sconforto, lasciandogli presagire la morte di tutte quelle povere donne innocenti delle quali si erano perse del tutto le tracce. Nel febbraio del '42, infatti, il campo di Villa Sorge era diventato un campo maschile per “comunisti e nazionalisti slavi”, deportati dopo l'invasione italiana della Jugoslavia. Le donne, che erano ancora nel campo, furono trasferite in blocco nel campo di concentramento femminile di Pollenza, in provincia di Macerata. Dopo l'8 settembre 1943, mentre nei territori liberati i campi di concentramento smisero di funzionare, quelli che si trovavano a nord della Linea Gustav, come nel caso di Pollenza, furono la base per arresti, rallestramenti e deportazioni in campi di sterminio. Anche Maria Eisenstein, che scriveva più per la necessità di conservare una proprio spazio di autonomia e di libertà rispetto all'abbrutimento generato dalla vita nel campo piuttosto che per il “piacere di scrivere” delle donne e degli uomini liberi, volle sparire. Lo fece in rispetto di quel silenzio violento che era stato imposto dai nazifascisti alle vittime della Shoah. Per questo inventò l'artificio letterario del suo libro steso in forma di un manoscritto privo di finale, rinvenuto per caso da un ufficiale inglese (il liberatore), che si trovava in cura nell'ospedale di Lanciano, dove erano stati ricoverati Aldo Oberdorfer, Maria Moldauer e tanti altri deportati.
Oggi, dopo tanti anni di ricerca storica, le cose sono assai cambiate: sappiamo con esattezza quali furono le internate del campo femminile di Lanciano che furono trucidate ad Auschwitz e sentiamo il bisogno di superare quell'ethos del silenzio che Maria Eisenstein si era imposta. Nel tempo intercorso tra l'uscita dal campo, l'internamento libero a Guardiagrele e Lanciano, la fuga tra le montagne d'Abruzzo e la pubblicazione del libro, l'autrice aveva avuto il tempo di aggiungere notizie ulteriori rispetto alle vicende del campo, come la resa della Grecia (aprile 1941) o la morte di Aldo Oberdorfer (14/09/1941), che tenevano sempre vivo e sospeso quel sentimento dell'angoscia che regnava tra le internate del campo, timorose di finire nelle mani di Hitler. Oggi siamo in grado di identificare, e in modo pressoché totale, le decine di persone che Maria Eisenstein ha raccontato, a volte con dovizia di particolari, altre volte di sfuggita, con lettere puntate o addirittura con nomignoli. Eccole allora, nello stesso ordine con cui sono presenti nel libro. Ci danno l'idea, per diversità di storie personali, di lingua, di età e di cultura di quella torre di Babele che era il campo di concentramento femminile di Lanciano.
Nota: dall'elenco sopra riportato risultano identificate 31 donne citate nel libro oltre a due minori, figlie di Korn Clara, per un totale di 33 persone. Le altre donne che compaiono nel libro e che non risultano identificate hanno soggiornato periodi molto brevi nel campo con esplicita dichiarazione dell'autrice (Wilma, Richter, le sorelle Aller) e, purtroppo, non compaiono negli elenchi a nostra disposizione oppure ad oggi non ci sono ancora elementi sufficienti per la loro identificazione (Cora, Eva). Secondo questa ricostruzione i numeri 42 e 63 compaiono due volte, in quanto designano la stessa persona che viene indicata dalla Eisenstein in modo diverso. Nel campo, non numerati, oltre alle figlie di Korn Clara in Havel, Betty e Henny, di 14 e 6 anni, vi erano un bambino di 1 anno, figlio di Roth Raisel, internata n. 5, e un altro di 5 anni, figlio di Comte Maria, internata n. 23. Vi erano state quasi certamente altre due bambine, figlie di Codrington Caterina, internata n. 2.
Partendo da questo primo importante risultato, che costituisce un ulteriore inveramento del libro della Eisenstein, si possono ricostruire, attraverso le schede personali, le storie personali delle donne recluse nel campo di Lanciano ben al di là di quanto ci riferisce l'autrice. Possiamo indicare, per ciascuna di loro, età, provenienza, religione, paternità, stato civile, titolo di studio, professione. Inoltre, attraverso un minuzioso lavoro d'archivio, presso i comuni, gli archivi di Stato provinciali, l'archivio del Ministero dell'Interno, è possibile costruire nel tempo legami di memoria sempre più fitti e densi, soprattutto quando si riescono a recuperare materiali provenienti dalle famiglie delle internate, come foto, memorie, diari.
In questo contesto si fornirà un modello di lavoro, aperto al contributo di altri studiosi, per procedere in una ricerca sempre in fieri orientata a sviluppare una storia sociale del campo femminile di Lanciano, con particolare riferimento al periodo luglio-dicembre 1940, durante il quale vi era internata, con il numero 6, Maria Ludwika Moldauer.
Qui di seguito si riportano le prime schede che costituiscono un approfondimento significativo rispetto a quanto già noto in letteratura.
Ilona
È, insieme a Ruth, l'amica più cara di Maria. Il suo nome compare diverse volte nel libro e a lei la Eisenstein dedica l'intero capitolo XVII. Il ritratto di Ilona è quello di una donna vissuta, rispettata da tutti, perfino da Pistone, il direttore del campo. È assai simpatica e sempre pronta a spalleggiare Maria. Carlo Spartaco Capogreco, nella nuova pubblicazione di L'internata numero 6 edita da Mimesis nel 2014, la identifica con Ilona Schich, internata n. 69 nel campo di concentramento di Lanciano, ma le incongruenze legate a tale attribuzione sono tali che nel mio I sassi e le ombre, in cui scrivevo su di lei il paragrafo Il coraggio di Ilona, mi ero ben guardato dal considerare Ilona Schick la Ilona di cui scrive Maria Eisenstein. La Schich era ebrea mentre l'altra era ariana, la prima era nata a Graz nel 1896 (o nel 1898) mentre l'altra vicino Presburgo nel 1900, quindi tedesca ebrea la prima, slovacca ariana l'altra; la Schick era sposata in Crapal e il marito viveva negli Stati Uniti mentre la Ilona del libro era vedova; la Schich aveva un fratello, morto da poco e intensi rapporti con la cognata, mentre Ilona aveva una sorella. Ce n'era abbastanza da sconsigliare l'identificazione tra la Ilona del libro e l'altra Ilona, internata nel campo di concentramento di Lanciano. Si poteva ipotizzare che Ilona fosse un'altra persona, magari riportata con il nome di Elena, dato che a Villa Sorge ce n'erano due. La prova però alla fine arriva e ce la dà il libro stesso, quando racconta nei particolari l'inchiesta partita dalla denuncia della Marfisi nei confronti dell'internata n. 14 Abramova Natalina (Natascia). Maria ci racconta che vennero chiamate a deporre come testimoni Hela, Mutti e Ilona che, nei numerosi documenti riguardanti l'accaduto corrispondono ai nomi di Steinfeld Hela (internata n. 47), Stenberg Margoniner Hilda (internata n. 31) e Culik Helene (internata n. 75). Il documento in questione era stato già da me pubblicato nel 2006 e precisamente nel paragrafo Scandali e inchieste del libro I sassi e le ombre. E allora non resta che prendere atto che la Ilona che sta tanto a cuore a Maria è Helene Culik.
Muzzetta
Si tratta di un nome che ricorre spesso nel libro, ma questa volta più che un nome è un nomignolo, che diventa assai difficile collegare a una delle internate di Villa Sorge. Qualche aiuto lo fornisce il capitolo VI, quando Muzzetta, raccontando la sua esperienza nel carcere, dice di essere protestante. Si tratta di un indizio molto importante perché circoscrive la ricerca al gruppo delle internate inglesi presenti nel campo. Poi Muzzetta aggiunge che nel carcere era con la sorella Emilia e con le sue due figlie, mentre nella sezione maschile del carcere erano rinchiusi il marito e il figlio di 18 anni. In uno degli elenchi del campo di Villa Sorge compaiono effettivamente due sorelle inglesi. Una di loro è sposata mentre l'altra è nubile e si chiama Emilia. Tanti elementi portano quindi ad identificare Muzzetta in Caterina Codrington, internata numero 2, e la sorella in Emilia Codrington, internata numero 1. Altro elemento interessante è che Muzzetta aveva quasi certamente con sé le due bambine che erano state in carcere insieme a lei e alla zia. Anche in questo caso si segnala che viceversa, nelle note a L'internata numero 6 del 2014, Carlo Spartaco Capogreco asserisce che Muzzetta era probabilmente Evelyn Mitchell, internata n. 38 nel campo di Villa Sorge, senza tuttavia fornire le motivazioni legate a tale attribuzione.
Gianni Orecchioni
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