Susanne Lewinger nasce a Colonia da una famiglia di ebrei tedeschi, il 21 settembre 1914. Quando il padre Otto, giovane magistrato, muore nella spaventosa carneficina della battaglia della Somme Susy, così veniva chiamata, aveva appena due anni. La madre, Marta Frank, veniva da una famiglia molto benestante e aveva avviato la figlia alla cultura musicale. A causa delle leggi razziali Susy studiò dapprima presso una scuola protestante e poi in Inghilterra.[1] Quando la situazione si fece pericolosa, la famiglia Lewinger fu costretta a disperdersi. Il fratello e la madre andarono in Israele, pagando il visto di entrata con i soldi della bella casa sul Reno svenduta a un terzo del suo valore fiscale. La sorella di Susy restò in Inghilterra per svolgere lavori domestici, mentre lei, che aveva già lavorato nell'orfanotrofio ebraico di Colonia come insegnante di ginnastica e movimento ritmico, emigrò in Italia, dove iniziò a lavorare come governante e insegnante di tedesco. Successivamente lavorò a Gardone Riviera in una scuola di bambini ebrei immigrati dalla Germania come insegnante di inglese per passare, infine, a lavorare, nella stessa Gardone Riviera, presso la casa del pittore Angelo Landi, che aveva affrescato la cupola del Santuario di Pompei, come insegnante del nipote Gianni. Susy era una persona preziosa da avere in casa, perché “era in grado di insegnare la ginnastica correttiva, l'inglese, il francese, il tedesco” e in più suonava il flauto dolce e la fisarmonica. Susy si legò moltissimo alla famiglia Landi, dove visse per alcuni anni come una persona di famiglia, e in particolare alla signora Elisa, la moglie del pittore. I Landi erano molto cattolici e, in questo rinnovato contesto di armonia e di affetto, Susy maturò l'idea di convertirsi al cattolicesimo. Tuttavia, il giorno prima della cerimonia religiosa del battesimo venne arrestata e condotta nel carcere di Gardone Riviera. Era scattata anche per lei l'ora dell'internamento degli ebrei stranieri, legata all'entrata in guerra dell'Italia. Successivamente venne trasferita nel campo di concentramento di Lanciano, dove giunse il 16 luglio 1940. Qui il 23 settembre si battezzò, tra lo sconcerto e il disprezzo di molte compagne di internamento, con una cerimonia, molto sentita, officiata dal Vescovo Tesauri. La sua madrina d'occasione fu la signora Marfisi, la collaboratrice del direttore del campo di concentramento di Lanciano. A testimoniare il legame profondo con Susy, Elisa Landi e il nipote presero una casa in affitto a Lanciano, vicino al campo di Villa Sorge, in modo che avevano la possibilità di vedere Susy clandestinamente, ogni qualvolta aveva il permesso di uscita. Il segnale era il suono di una fisarmonica. Dal campo di concentramento di Lanciano, fra l'agosto e il novembre 1941, Susy fu in corrispondenza con Malchen Banner, una ragazzina che era stata sua allieva nell'orfanotrofio ebraico di Colonia e che ora si trovava rinchiusa, con la sorella e il padre, nel ghetto di Varsavia. Uno studio di Dieter Korbach ha consentito di ricostruire il profondo legame tra Susy e la sua allieva, che viveva una storia particolarmente drammatica.[2]
Dalle lettere si apprende come Susy, che era riuscita perfino a fare arrivare a Malchen un po' di aiuti alimentari, cercò di assistere in ogni modo la famiglia Banner che, nella privazione estrema che traspare nelle lettere malgrado la censura, morì di fame e di freddo nel ghetto di Varsavia. Con la trasformazione di Villa Sorge in un campo di concentramento maschile, Susy venne trasferita nel febbraio del '42 a Pollenza, nel campo di concentramento femminile di Villa Lauri. Era ancora lì dopo la caduta del fascismo e la firma dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Appena vide arrivare le prime pattuglie dei tedeschi Susy, terrorizzata, riuscì a fuggire. Delle donne che erano con lei soltanto un'altra internata riuscì a salvarsi dal rastrellamento e dalla successiva deportazione a Auschwitz. Era il 17 settembre 1943. Raggiunse la stazione ferroviaria di San Vito Marina e da qui si unì agli sfollati che stavano cercando rifugio nelle montagne abruzzesi. In questa circostanza conobbe Giovanni Iavicoli, con la cui famiglia trascorse i momenti difficili della fuga e della guerra, con il pericolo costante di cadere nelle mani dei nazisti. Durante il lungo peregrinare per le montagne fu all'inizio in compagnia anche di Maria e Samuel Eisenstein che, come altri internati, avevano avuto dal podestà di Lanciano documenti falsi. A fine guerra sposò Giovanni Iavicoli, che era un avvocato socialdemocratico, amico di Enrico Mattei, e che fu anche sindaco di San Vito. Nel piccolo borgo marino Susy continuò a vivere, anche dopo la morte del marito. Mantenne una forte carica di spiritualità nel solco del Concilio Vaticano II e mantenne un rapporto molto stretto con Loris Capovilla, il segretario particolare di Papa Giovanni XXIII, che aveva conosciuto quando era arcivescovo metropolita di Chieti e con il quale rimase in stretto contatto per il resto della sua vita. Lavorò come interprete all'università e fu attivista di Amnesty International. Non volle mai raccontare la sua storia in rispetto delle tante persone che erano state inghiottite dalla Shoah. A chi le chiedeva di parlare dei suoi ricordi si limitava a dire: “i ricordi dentro di me sono come il rumore del mare”. Quando sopraggiunsero la vecchiaia e la malattia, quel rumore si fece impetuoso e Susy iniziò a scrivere per fronteggiare il tumulto delle onde del passato che si era abbattuto nuovamente su di lei e che le aveva provocato una sofferenza non paragonabile a quella della malattia, che affrontò fino alla fine con grande equilibrio e serenità. I suoi ultimi scritti, oltre che essere una preziosa testimonianza per la storia dell'internamento civile fascista, rappresentano un importante documento della sua statura intellettuale e morale. Prima di morire Susy li aveva affidati alla custodia di padre Angelo Picelli, un giovane passionista dell'Abbazia di San Giovanni in Venere che riteneva “straordinariamente ispirato e puro”. È grazie a lui che Susy, dopo tanti anni di silenzio, continua a far sentire ancora la sua voce di testimone della Shoah.
Gianni Orecchioni
[1] Le fonti per la ricostruzione della biografia di Susy sono varie. Si possono trovare tra il fondo d'archivio ACL, b. 14, f. 6, l'intervista di A. Gagliardo e M. R. Fioretti, Susanne Lewinger. Una vita del '900, le note scritte prima della morte e lasciate in custodia a Padre Angelo Picelli, frate passionista della splendida Abbazia di San Giovanni in Venere, a Fossacesia, in provincia di Chieti. Una ricostruzione più generale delle vicende di Susy si trova in G. Orecchioni, I sassi e le ombre, cit., par. Il mondo di Susi, pp. 74-94.
[2] Vedi D. Korbach, Colonia e Varsavia sono due mondi. Amalie Banner: sofferenza sotto il terrore, Scriba, Colonia, trad.italiana di Karin Knott. L'originale del testo è custodito presso il Museo della Shoah in Israele. Amalie Banner, questo era il vero nome di Malchen, era una promettente ballerina, che, per gravi motivi di salute, aveva perso l'uso delle gambe e da allora, con l'incoraggiamento di Susy, si era dedicata a disegnare abiti. Tutti i bambini che erano nell'orfanotrofio di Colonia furono deportati ed uccisi ad Auschwitz. Teresa Wallach, la direttrice dell'orfanotrofio, cercò in ogni modo di difendere i bambini dai nazisti e, non riuscendovi, si suicidò. Per maggiori informazioni su questa storia particolarmente toccante e drammatica si rimanda a G. Orecchioni, I sassi e le ombre, cit., par. Il mondo di Susi, pp. 74-94.
Documentazione
Atto di matrimonio e di morte. Ufficio anagrafe del comune di San Vito Chietino. Si ringrazia il Sig. Attilio Alberico dell'Ufficio anagrafe.
Susy: Isola del Giglio 1937-1938
Si ringrazio il dott. Gianni Landi per le foto.
Documento conservato presso l'Archivio storico del comune di Lanciano
Documenti concessi da Padre Angelo Picelli, passionista dell'Abbazia di San Giovanni in Venere.
Il volume pubblicato a Colonia che contiene i testi delle lettere di Susy scritte nel campo di concentramento
Si ringrazia il prof. Luciano Biondi per la gentile concessione della lettera del 6 marzo 1998.
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