È stato “un grosso lotto di corrispondenza”, ricevuto gratis da un collezionista di filatelia e di documenti sulla Shoah, col quale Livio Isaak Sirovich (“Non era una donna, era un bandito”, Cierre, Verona 2015) ha ricostruito una parte importante della vita di Rita Rosani, unica donna italiana medaglia d’oro della Resistenza. Una storia, narrata familiarmente, con affetto e rigore, nel quadro della Trieste degli anni ’40. La Trieste di Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann, di Umberto Saba, James Joiyce e Italo Svevo. La Trieste di cui Natalia Ginzburg scriveva in Lessico famigliare: “La Storia bussò con tale violenza anche alla porta degli ebrei triestini… che tutti ne rimasero come tramortiti”. Ed è proprio in quel contesto che si svolge la vita di Rita Rosani (Rosenzweig) e del suo fidanzato Kubi Nagler. Una comunità di ebrei provenienti dall’Europa centrale.
Nella primavera del 1939, Rita diciannovenne e Kubi ventisei, sulla base degli stretti rapporti tra le famiglie e secondo la tradizione ebraica della yddishe Mame si ritrovano fidanzati, tanto che a Kubi, dopo un ballo con Rita, escono queste parole spontanee: “Solo un ramo di rosa, Rosenzweig, può ragionevolmente fiorire”. Ma quella rosa non fiorirà come sposa di Kubi. Il 30 giugno 1940, 51 ebrei vengono spediti da Trieste a Casoli, internati nel campo di concentramento. Tra loro il padre di Kubi, Salo Nagler. Il 27 luglio 1940 Kubi Nagler viene spedito in Calabria, al campo di concentramento di Ferramonti, vicino alla stazione ferroviaria di Tarsia, in provincia di Cosenza. Ha inizio così la corrispondenza tra Rita e Kubi, ma quest’ultimo non ha il permesso di scrivere se non una cartolina e una lettera di 24 righe a settimana. Rita scrive ogni due o tre giorni.
Il 13 settembre 1940, Kubi parte da Ferramonti e spedito con foglio di via obbligatorio al Campo di Casoli, scendendo dalla ferrovia Sangritana e salendo a piedi al paese. Rita scrive facendo rimproveri al fidanzato che scrive troppo poco e dicendogli che è “contrarissima a partire” per l’estero. Se ne profila l’esaurimento, mentre il fidanzato scrive che a Casoli c’è anche il cinema, tacendo che non viene usato per proiezioni di film, ma come dormitorio, appendice di palazzo Tilli.
Si apre un nuovo capitolo del “lotto di corrispondenza”: le lettere e il materiale ritrovato a palazzo Cavacini di Castelfrentano. La ricerca storica come un’indagine da detective.
La Delasem (Delegazione ebraica di assitenza) cerca di favorire la corrispondenza tra correligionari reclusi. Inizialmente le Poste tasseranno le lettere senza francobolli, ma in seguito le faranno passare. Un fantasioso espediente per aiutare gli ebrei. Sirovich, come un antropologo, descrive vita e personaggi della Casoli di allora e di oggi in modo simpatico e cordiale. Quando la storia è la ricerca dell’uomo di sempre.
A Trieste, intanto, Rita consegue il diploma di maestra e va ad insegnare nella scuola del preside ebreo fascista, Bruno Tedeschi. Il rapporto con Kubi si va allentando: “Ho solamente venti anni e questi benedetti venti anni non ritorneranno mai più”. Fa la segretaria del preside e se ne innamora.
La madre di Kubi e moglie di Salo, Eige, arriva a Lanciano il 16 aprile 1941 per essere poi trasferita col marito a Castelfrentano, “che raggiungono il 7 giugno finalmente senza scorta”. Padre e figlio chiedono di potersi incontrare una volta alla settimana, ma il questore di Chieti, Mendola, respinge. Concede di potersi incontrare dal 16 al 20 ottobre.
Racconta Sirovich: “A Lanciano, un’anima buona, che sa come si mena la penna in queste circostanze in Italia, convince Eige che l’unico modo è rivolgere una supplica, anzi due ‘A Sua Altezza reale Imperiale la Principessa di Piemonte… e All’Eccellenza Donna Rachele Mussolini’ ”.
Nel dicembre 1941, padre, madre e figlio si ricongiungono a Castel Frentano. La corrispondenza tra Rita e Kubi, da Trieste all’Abruzzo, non si interrompe anche se il fidanzamento sembrava finito. Il 18 luglio 1942, Rita scrive: “Non siamo più fidanzati e non siamo nemmeno degli amici con i quali ci si può confidare”. E poi: “Avrei da chiederti un piacere, caro Kubi. Sono certa che tu ài (sic) salvato tutte le lettere che ti ho mandato da quando sei partito. Vorrei che tu me le mandassi di ritorno, oppure che tu le bruciassi”. L’8 settembre 1943 si sparge la notizia dell’armistizio. Ma la situazione degli ebrei internati resta inalterabile. Il 2 novembre 1943 Salo, Eige, Kubi e gli altri internati di Castelfrentano “si lasciano prendere docilmente”. La mattina del 3 novembre trasferiti alla fornace Crocetta. Poi al campo dei prigionieri di guerra di Chieti Scalo. Vi rimangono fino al 20 novembre, affermando che “i soldati tedeschi ci trattavano veramente bene”. Trasportati da Chieti a L’Aquila. Da L’Aquila a Bagno a Ripoli vicino Firenze. A San Vittore. Infine ad Auschwitz.
L’ 8 settembre 1943 a Trieste erano rimasti 2300 ebrei, un terzo. L’ufficiale Umberto Ricca, reduce dalla Russia, dice di non volersi arrendere ai tedeschi. “A Trieste abbiamo 40.000 uomini e la popolazione è con noi. Basta ordinare di sparare. Perché arrendersi?” In caserma, Ricca distribuisce le armi, ma il generale Esposito le fa ritirare. Ricca si schiera contro i tedeschi. Cambia nome in Antonio Cipriani, ingegnere, nato a Bari. Passa la notte in compagnia d’una amica cantante lirica. Prende il treno e arriva a Latisana. Da qui a Lignano. Incontra un gruppo di ebrei sfollati. Tra loro, “una piccoletta, con i capelli rosso ramati, un’ira di dio”. È Rita Rosenzweig, Rosani, “che s’innamora del bel colonnello in incognito e diventa partigiana”.
“Secondo gli archivi del movimento partigiano - scrive Sirovich - la nostra ragazza entrò nella resistenza armata a metà febbraio del 1944. Erano già due anni che aveva rotto con Kubi, circa quattro mesi che non ne aveva presumibilmente alcuna notizia, oltre tre che si era unita a Ricca. Eppure a me è rimasta la sensazione che la scelta non di fare semplicemente la staffetta, o avere comunque un ruolo femminile, ma di prendere le armi - cosa assai inconsueta per una donna di quei tempi - fosse in qualche modo legata alla fine di Kubi e della sua famiglia”.
Ricca entra in pieno nella resistenza veronese. E con lui, Rita. Sirovich descrive esattamente la situazione di guerra, anche se confessa: “Non riusciamo a sganciarci dal libro tendenzialmente narcisistico di un uomo che di donne ne ebbe centinaia. Anche in questo la Storia non è stata clemente con lei”. Il libro narcisistico è quello di Ricca, che uscirà sano e salvo dalla guerra di resistenza e la racconterà a modo suo.
La conclusione, con la morte di Rita, avverrà nel settembre 1944. Uno scontro con i nazifascisti che vanno rastrellando. Al mattino presto. A Monte Comune.
“La Rosani presentava uno squarcio al fianco sinistro, ricoperto da molto sangue coagulato, nonché una ferita all’occhio con foro d’uscita alla nuca. Il colpo dev’essere stato sparato certamente da un metro circa di distanza” (Deposizione in Corte d’Assise).
Mario Setta
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PELLIZZER FAUSTO (sabato, 17 febbraio 2018 21:56)
Ringrazio veramente tutte le persone che hanno fatto le ricerche per trovare la verità sulla storia di Rita e dei genitori Lodovico e Rosa Rosani. Ero troppo piccolo a quel tempo per capire,
ma ricordo tante cose elementari vissute in particolare con mamma Rosa fino alla sua morte avvenuta nel 1954.
Maria pia (sabato, 15 maggio 2021 04:05)
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